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Sono anni ormai che si parla di web 3.0 o web semantico, basta pensare che alla fine del 2007 il British Medical Journal pubblicava articoli entusiastici sul suo possibile impiego, prospettando conseguenze eccezionali nella diffusione e condivisione delle conoscenze medico-scientifiche.

A distanza di anni la mancata realizzazione di tali profezie ci porta indubbiamente a rivedere non solo l'entusiamo per le potenzialità tecnologia, ma soprattutto i processi che stanno alla base della diffusione delle informazioni.

Ripartendo dalle origini: il web 3.0 è definito come l'impiego online di software sofisticati per catalogare e gestire enormi quantità di dati, potenzialmente già esistenti su internet, creando database facilmente navigabili ed interrogabili. La variabile chiave diventa proprio la possibilità di collegare informazioni tramite i "metadati" collegati a quelle stesse informazioni.

L'accezione di web semantico fu coniata per sottolineare, inoltre, la potenzialità di software cosiddetti "intelligenti" di correlare non solo i dati grezzi, ma i concetti connessi alle informazioni, per cui l'utente avrebbe potuto spaziare in ogni angolo del sapere partendo da un qualunque concetto e proseguendo per approfondimenti successivi.

Tale rivoluzione diventava ancora più dirompente alla luce delle potenzialità attribuite al web 2.0, il web collaborativo, dove gli utenti generavano il contenuto spontaneamente condividendolo, referenziandolo e avvalorandolo attraverso il libero confronto. Le wiki, le enciclopedie condivise create dagli utenti parevano poter racchiudere ogni possibile sapere e renderlo accessibile a tutti.

Su queste premesse l'articolo del BMJ giungeva alla conclusione che la medicina basata sulle evidenze era alla frontiera di uno sviluppo inarrestabile: i contributi spontanei degli utenti avrebbero fornito i la base di un'enorme esperienza medica globale, facilmente consultabile attraverso il web semantico.
La mancata realizzazione di tale profezia, ancora una volta, non ha però tanto a che fare con la tecnologia di per sé, quanto con i processi abilitanti che sono mancati. La profezia nascondeva, infatti, ulteriori condizioni necessarie implicite che non si sono assolutamente verificate.

Non si è verificata la creazione di database collaborativi e spontanei qualitativamente strutturati. Le informazioni di qualità infatti non vengono costantemente condivise, o comunque non in maniera organica e ordinata. Anche quando questi database esistono per merito di associazioni o enti preposti, pensiamo a PubMed della U.S. National Library of Medicine, tuttavia questi non permettono automaticamente l'accesso all'informazione completa gratuitamente, frustrando l'utente con infinite ricerche tra documenti parziali e incompleti. E soprattutto software intelligenti di data mining semantico non vengono creati e rilasciati gratuitamente agli utenti per facilitare la loro navigazione. Le poche iniziative spontanee si sono fermate a soluzioni improvvisate e incomplete.

La profezia è fallita, in definitiva, di fronte alla necessità di completezza, certezza e autorevolezza delle informazioni e delle soluzioni, completata da soluzioni eccellenti per facilitare la navigazione dei contenuti. La lezione che se ne deriva è che il web e in generale i servizi informatici necessitano ancora immancabilmente dell'intervento di professionisti del settore che apportino qualità in ogni elemento della catena del valore: dalla raccolta alla pubblicazione delle informazioni per garantirne la migliore fruizione.

Le prospettive future sono quindi legate proprio all'evoluzione di progetti sperimentali di publishers ed enti dotati dell'autorevolezza necessaria a proporre soluzioni realmente innovative che garantiscano informazioni scientifiche realmente attendibili, condivisibili e accessibili.

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