E se gli animali diventassero da strumenti per le sperimentazioni, pazienti veri e propri? Un radicale cambio di prospettiva che non sembra così lontano, a giudicare da un articolo del New York Times. Sembra, infatti, sempre più diffusa la tendenza da parte dei proprietari di animali a far arruolare i propri cani in trial clinici che potenzialmente siano di beneficio oltre che, in futuro, ai pazienti  anche agli animali stessi. Una svolta che sembrerebbe molto gradita anche agli animalisti che tante battaglie hanno fatto e continuano a fare per proteggere gli animali dalle sperimentazioni. In linea generale, questi studi coinvolgono cani affetti da tumori, la principale causa di morte naturale tra i cani anziani e, naturalmente, sono sponsorizzati dalle aziende. Per esempio, Pfizer ha già introdotto un antitumorale testato in precedenza sui cani e un’altra compagnia farmaceutica la IDM Pharma ha fatto qualcosa di analogo. Il fatto è che trattare i cani, dà ai ricercatori l’opportunità di vedere non solo come il farmaco funzionerà sugli uomini ma con la possibilità di aiutare anche gli animali.

Non sono peraltro iniziative sporadiche, visto che il National Cancer Institute ha creato un consorzio di oltre una dozzina di presidi ospedalieri veterinari nei quali vengono condotti i test. E il consorzio ha già portato a termine il suo primo studio e un secondo sta per cominciare. Il New York Times sottolinea l’aspetto istituzionale, l’NCI è un ente di ricerca federale, così come ripete che i cani arruolati in questi trial all’avanguardia beneficiano dei migliori antitumorali disponibili. Del resto, l’oncologia veterinaria è indietro di 50 anni rispetto a quella umana, e molti veterinari già utilizzano off label farmaci umani anche per gli animali e sono ben poche le persone disposte o in grado di spendere dai 2000 ai 5000 dollari per i loro cani. Ovviamente c’è un risvolto commerciale specifico, visto che per l’antitumorale della Pfizer, indicato per stomaco e rene, si spera di avere anche l’approvazione per uso veterinario. Mentre un’altra compagnia, la Varian Medical Systems, che produce apparecchiature per la radioterapia, sta sponsorizzando un test sui cani per verificare se le radiazioni possono rendere certi antitumorali più efficaci. I tumori, peraltro, non sono la sola malattia ad affliggere uomini e animali che ammetta un simile approccio. Esistono, per esempio, studi simili nel campo delle lesioni spinali, ma di sicuro la patologia tumorale è quella più diffusa e quindi riceve una particolare attenzione. 

Gli studi condotti sugli animali, comunque, seguono tutti i dettami delle altre ricerche, quindi esiste un board per l’approvazione e i proprietari firmano un consenso informato. Un modo per sottolineare che, contro tutti gli scempi effettuati con le sperimentazioni sugli animali, in questo caso vengono trattati come pazienti veri e propri. I trial sugli animali poi assicurano una serie di altri vantaggi, dalle regole meno rigide ai tempi più contenuti, vale, infatti, lo schema per cui un anno di vita del cane corrisponde a sette degli uomini. Ancora maggiore, poi, è l’utilità degli studi sui cani laddove si ha a che fare con tumori rari negli umani ma non negli animali, come l’osteosarcoma per esempio. Dopo che un veterinario ha dimostrato, negli anni ’80. che il muramil tripeptide è in grado di allungare la vita dei cani con osteosarcoma, il National Cancer Institute ha iniziato a testarlo sugli uomini, sperimentazione culminata con l’approvazione per l’uso umano. Evidentemente i test non si possono estendere a tutti i tumori e va ricordato che difficilmente una molecola sarà ugualmente efficace nelle due specie diverse. Ecco perché le aziende farmaceutiche conservano comunque una certa cautela.

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