A parlare di farmacogenomica e farmacogenetica, a volte, sembra di toccare temi futuribili. In realtà non è più così da qualche tempo. Lo segnala, ultimo in ordine di tempo, anche un workshop organizzato dalla casa statunitense Nanogene in seno al Congresso nazionale della Società Italiana di genetica umana, intitolato Farmacogenetica e clinica: una distanza da misurare. Distanza che, meglio anticiparlo, è risultata al termine delle relazioni abbastanza breve. Per farmacogenetica si intende l’indagine sulle caratteristiche, polimorfismi, variazioni di un singolo nucleotide, capaci di influenzare la risposta individuale al medicinale in termini di farmacodinamica e di farmacocinetica. Caratteristiche che vertono esclusivamente sul DNA, sui geni, come ha spiegato il professor Antonio Novelli, del Dipartimento di Medicina di Laboratorio Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Torvergata, Roma. Un settore in cui le conoscenze sono andate   accumulandosi con una grande rapidità. La relazione del professor Novelli, centrata sulla farmacogenetica delle malattie cardiovascolari, per esempio, ha mostrato come per le principali classi di farmaci oggi impiegati in terapia, a cominciare dai beta-bloccanti per finire alle statine, siano interessate dal fenomeno. E se in alcuni casi, come quello delle statine, la presenza di questo o quel polimorfismo può determinare al limite una minore efficacia, in altri casi come quello del warfarin la variabilità della risposta è tale da ridurre in misura molto significativa la finestra terapeutica del farmaco, con le ovvie conseguenze in termini di ricerca del dosaggio e gli altrettanto ovvi rischi. “Ma fuori dal campo cardiologico” ha aggiunto Novelli “ci sono situazioni anche più stringenti. Nel caso dell’abacavir, farmaco fondamentale per il trattamento delle infezioni da HIV, esiste un genotipo per il quale il farmaco si rivela mortale. E in questo caso il test è imprescindibile”.
 
E proprio i test sono al centro degli sviluppi più immediati. Infatti è storia recentissima la conclusione del primo meeting organizzato dalla National Academy of Clinical Biochemistry statunitense, che ha radunato esperti di genetica, medicina di laboratorio, clinici e rappresentanti dell’industria per elaborare le prime linee guida sui test farmacogenetici. Conclusioni, per esempio, che prevedono la raccomandazione, nel caso del warfarin, di procedere al test relativo ai polimorfismi dei geni VIKOR1 e CYP2C9, che determinano la variabilità della risposta al farmaco nel 25% dei casi, e questo già dopo la prima somministrazione. “Una raccomandazione che finirà rapidamente anche nei bugiardini europei” aggiunge Novelli.
E’ il caso di sottolineare che le metodiche, anche rapide e facilmente padroneggiabili, per questo genere di test esistono già. Si tratta dei microarray elettronici di cui ha parlato Elaine Weidenhammer, Associate Director Strategic Market Development Nanogen, dispositivi che grazie all’impiego di biochip consentono lo screening di molti campioni per un solo polimorfismo o viceversa, di un solo campione per più polimorfismi. Costoso, inapplicabile? “Per quanto riguarda lo screening per le mutazioni di VIKOR1 e CYP2C9, il sistema si ripaga evitando il 50% dei casi di reazione avversa al warfarin”. Un obiettivo che non sembra poi così lontano, se si considera che anche in Italia gli utenti di questo farmaco si valutano in centinaia di migliaia. E a proposito della penisola, il workshop ha dimostrato che le esperienze, e le eccellenze, non mancano. E’ il caso degli studi sulle leucemie infantili condotti dal professor Andrea Biondi, dell’Università di Milano-Bicocca, Direttore del Centro di Ricerca M. Tettamanti per lo studio e la cura delle leucemie infantili. Un campo dove il successo clinico è fortunatamente alto, ma nel quale è stato possibile spiegarne le ragioni con una eccezionale definizione solo grazie agli strumenti della farmacogenetica.
 
Resta da stabilire quale sarà il ruolo delle aziende farmaceutiche. Sarà sempre più difficile, d’ora in poi, arrivare alla fase III senza un supporto farmagenetico e se questo pare un aggravio aggiuntivo, c’è da domandarsi se non eviterebbe ben più dispendiose situazioni, anche sul piano dell’immagine, del tipo di quella del Vioxx. Nel caso dei COX-2, la spiegazione più equilibrata vuole che questi farmaci siano stati prescritti a troppe persone e troppo rapidamente. Ma, tutto considerato, viene da chiedersi se le persone erano troppe o, più semplicemente, erano quelle sbagliate.



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