E’ storia vecchia: già una dozzina di anni orsono, il British Medical Journal cominciava a riportare notizie come quella della pomata “tradizionale cinese” e ovviamente “naturale “, che però, alla fine, conteneva cortisone. Dalla Cina, dunque, è da tempo che giungono, in modo quasi sempre illegale, farmaci che non si presentano per tali oppure farmaci che si presentano come note specialità, ma che in realtà sono contraffazioni.
Non è quindi sorprendente la notizia del sequestro, da parte della Guardia di Finanza, di 46.000 confezioni di farmaci cinesi avvenuto il 27 ottobre in provincia di Catania. Lo schema era il medesimo della pomata: medicinali travestiti da cosmetici e prodotti per il benessere: balsami, oli e unguenti. In realtà, contenevano antiacidi, FANS, psicofarmaci quali ipnotici e ansiolitici e – come poteva mancare – il sildenafil citrato, che sicuramente avrà reso per la prima volta concrete le promesse, che in Oriente si sprecano, di effetti afrodisiaci. Peraltro, nell’allestimento di questi singolari medicamenti, avevano largo spazio, come hanno dimostrato le analisi condotte presso l’Istituto Superiore di Sanità, sostanze potenzialmente tossiche o a rischio di interazioni farmacologiche come canfora, eugenolo, alacaloidi.
Non a caso, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Cina è il numero uno in un mercato, quello dei medicinali contraffatti, che vale poco meno di 28 miliardi di euro l’anno. Secondo la maggioranza degli esperti del settore, tanta “potenza di fuoco” verrebbe dal mancato riconoscimento della proprietà intellettuale, o più prosaicamente dei brevetti, da parte della Repubblica Popolare Cinese. Un’altra spiegazione, invece, vuole che buona parte di queste esportazioni fraudolente sia una conseguenza della presenza di forti e numerose comunità cinesi un po’ ovunque, comunità assai chiuse alla medicina del paese che le ospita e abituate a fidarsi di ciò che conoscono. Tuttavia pare che questo circuito parallelo abbia frequenti scambi con quelli ufficiali dei diversi paesi occidentali e che la circolazione di questi medicinali sia in realtà assai più diffusa.
Un pericolo giallo in piena regola, dunque? Non è quello è stato detto in un recente convegno londinese organizzato dall’ Intellectual Property Institute e intitolato “The Chinese Opportunity: Successful Business Development in China.” Lì si è parlato, ovviamente, di mancato rispetto dei brevetti, degli effetti nefasti di un sistema legale incoerente, ma anche di controlli di qualità spesso carenti (o aleatori) e della sgradevole abitudine, in alcune aree, a divulgare i segreti industriali.
Ciononostante, c’è chi ritiene che la situazione possa cambiare a breve: “La Cina si trova oggi nella stessa situazione in cui si trovava il Giappone una decina di anni fa, per quanto riguarda le tematiche della proprietà intellettuale, ma la sua evoluzione sarà anche più rapida di quella della Corea del Sud” ha detto Kevin Rivette, vicepresidente della IBM con delega all’IP. E’ vero che sarebbe difficile per IBM parlare troppo male della Cina, visto che è a un’azienda cinese che ha ceduto il suo ramo personal computer, ma è altrettanto vero che, proprio per questo, ha notizie di prima mano. Secondo Rivette, il Ministero dell’Industria cinese sta agendo in modo abbastanza deciso per implementare il rispetto della pratica brevettuale, e stima che entro 10-15 anni il rispetto dei brevetti sarà una realtà diffusa in tutto il paese. Soprattutto, ha proseguito Rivette, perché le stesse industrie cinesi hanno capito che i revetti sono una fonte di guadagno. “Basta fare un confronto con l’India” ha detto. “Questo paese ha incassato royalties per 15 milioni di dollari negli ultimi 10 anni, la stessa cifra la Cina l’ha raccolta in cinque anni”. La Cina, è il commento, è ben più interessata a fare a affari, e va presa sul serio. Sarà, ma l’India non ha ancora esportato il Viagra travestito da balsamo canforato.
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