Parole d’ordine la filosofia industriale ne ha promosse molte, si va dal just in time alla qualità totale. Non molte sono quelle che, dal mondo dei beni di consumo, sono transitate con successo nel mondo farmaceutico. Con un’eccezione corposa: il lean manufacturing. Si tratta, come è noto, del sistema di management ideato e applicato, a partire dagli anni 90 dall’industria automobilistica giapponese, capofila la Toyota. Il concetto fondamentale è la lotta ai sette sprechi, identificati in sovrapproduzione, tempi di attesa, trasporto, processo, magazzino, spostamenti, scarto. L’obiettivo della lean production si traduce quindi nell’organizzazione di un sistema in cui le merci sono trasportate solo quanto basta (produzione decentrata), il personale non attende per svolgere le sue mansioni, né il prodotto resta fermo in attesa del successivo passo; il magazzino, in entrata e in uscita, non è più vasto di quanto serve; gli stessi lavoratori, a tutti i livelli, si muovono, proprio nel senso letterale di camminare, il meno possibile. Aspetto più importante, la produzione è guidata dalla domanda, non dall’offerta: in altre parole, si produce in base alla richiesta del mercato, e non si inonda il mercato nella speranza che, vista l’offerta, qualcuno compri.
Al di là di alcuni aspetti superflui (o che tali dovrebbero essere) nell’industria del farmaco, come la qualità totale del prodotto finito e la soddisfazione dell’utente, è evidente che una razionalizzazione dei processi male non fa mai, soprattutto se, come è andato accadendo, si tende anche a ridimensionare la forza lavoro: la lean production è nata anche per ottimizzare l’impiego di risorse limitate. Analogo problema se lo sono dovuto porre anche le istituzioni sanitarie e negli Stati Uniti alcune Health Maintenance Organisation hanno aderito a questa filosofia; anche in Italia, per rifarsi a uno dei sette sprechi, all’inizio del processo di aziendalizzazione di Unità sanitarie e ospedali, vi furono le crociate contro i camminatori, dipendenti, magari anche qualificati, che passavano buona parte del loro tempo portare documenti, referti e altro da un piano all’altro.
Oggi, a più di un decennio di distanza, un’indagine britannica rivela che circa la metà delle aziende farmaceutiche che hanno adottato questo approccio non hanno ottenuto i risultati sperati. Una conclusione che non stupisce gli esperti, visto che nell’industria farmaceutica si presentano complessità e criticità sconosciute a strutture devote ad alti volumi di produzione di oggetti intrinsecamente semplici, come computer e auto. In un rapporto piuttosto recente, Colin Masson, analista di AMR, ha identificato in modo abbastanza preciso le difficoltà di trasportare, se non superficialmente, il sistema Toyota. Nel farma, per cominciare, strutture ed equipaggiamenti sono in larga misura condivisi, è ben raro che esista qualcosa di analogo alla line di montaggio di un singolo modello che è invece la norma dell’industria dell’auto. Poi c’è da tenere presente l’elevato mix di prodotto, ben più ampio, in media, di quello di qualsiasi produttore di personal computer. Infatti, mentre dal pc più basico a quello più complesso di una stessa linea si è di fronte a un processo di add-on, lo stesso non può dirsi, per esempio per la linea infettivologica di una casa. Non c’è la scalarità, insomma. Poi, e non è poco, viene la volatilità del mercato. L’uscita di scena di un antibiotico per l’elevato tasso di resistenze non è un fatto prevedibile con certezza e neppure contrattabile (come invece le normative anti-inquinamento per l’auto). Infine, ed è forse il dato meno elastico, la domanda del consumatore è forse l’aspetto meno importante della vendita di un farmaco: epidemiologia e biologia pesano molto di più. Quindi, razionalizzare si può sempre, ma senza aspettarsi miracoli.
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