Buy or make? Il pendolo tra le due opzioni oscilla verso un polo o l’altro in funzione di tantissimi fattori: costo della manodopera, domanda, capacità di diversificazione. Attualmente sembra che nell’Unione Europea l’outsourcing stia prevalendo, almeno nel settore ricerca e sviluppo. Secondo un’indagine condotta su 449 società europee di primo livello, le attività appaltate in questo settore rappresentano un giro d’affari di 30 miliardi di euro. Un volume destinato a crescere, visto che le aziende stesse stimano una crescita degli investimenti in R&S del 5% annuo nei prossimi tre anni. Abbastanza prevedibile il fatto che il 60% di queste giro d’affari sia rappresentato da aziende farmaceutiche tradizionali, ma anche dalle biotech company. I fattori principali che spingono a questa scelta sono intuibili: da una parte la necessità di affiancare le capacità interne di ricerca di nuove molecole e dall’altra la necessità di servirsi di tecnologie che non sono disponibili oppure delle quali non conviene dotarsi stabilmente, perché troppo costose o perché destinate a non avere un impiego frequente.
Quest’ultima motivazione, ed è questa la novità, forse, vale in particolare per le aziende biotech. E’ quanto emerge, tra altri dati, da un’indagine condotta dalla società britannica Piribo. Il dato complessivo è che se nel 2004 le aziende di questo settore appaltavano il 35% della loro attività, nel 2008 la quota dovrebbe toccare il 50%. Tanto che in questa già variegata compagine si è creata una nuova categoria: le CBMO o contract biomanufacturing organisations, insomma i terzisti del DNA ricombinante. Il rapporto britannico cita alcune cause: i processi di produzione del biofarmaceutico sono ancora molto complessi, e richiedono ancora un grande apporto di lavoro umano, senza contare che la costruzione di impianti per queste lavorazioni è molto più costosa di quella di un impianto chimico tradizionale. Rispetto all’outsourcing nel settore tradizionale, qui acquistano particolare importanza, e quindi potenziale criticità, aspetti come la gestione dei flussi informativi e il trasferimento di tecnologie tra azienda ordinante CBMO. Aspetti che rendono assai più lento l’avvio della collaborazione rispetto al passato e che, quindi, potrebbero condurre, più che a rapporti occasionali limitati nel tempo e nell’oggetto, alla creazione di un “indotto” sul modello di altri settori industriali, come quello dell’automobile.
In ogni caso, tornando al settore farmaceutico nel suo complesso, orma l’idea di affidare a terzi settori importanti come la chimica o lo screening non suscitano più diffidenza nelle grandi case, ma nemmeno nelle piccole, visto che ormai è un elemento chiave per restare sul mercato. Un aspetto interessante riguarda il tema della delocalizzazione, che ha stravolto il panorama degli altri settori produttivi. Nel settore biofarmaceutico europeo si preferisce rivolgersi ad aziende della stessa nazione o, in seconda battuta in ambito continentale, e Germania, Gran Bretagna e Francia rimangono le location preferite. Seguono gli gli Stati Uniti e soltanto a una notevole distanza, India e Repubblica Popolare Cinese. Alcuni argomentano che è un segnale in controtendenza e, quindi, per molti aspetti diseconomico. Può darsi, ma è assolutamente coerente al fatto che i settori ad alta tecnologia, a meno che non vi sia un trasferimento diretto, restano relativamente immuni alla concorrenza basata esclusivamente sul prezzo. Nello scegliere dove collocare le risorse esterne, infatti, conta l’accesso al mercato, la disponibilità di ricercatori qualificati e la presenza di strutture di ricerca con risultati al proprio attivo.
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