In fatto di immagine delle farmaceutiche, e di pratiche di farmacovigilanza, si parla apertamente di era “post Vioxx”. Almeno nella sua versione anglosassone, si tratta di un insieme di fenomeni che parte dal calo di immagine e fiducia per le aziende da parte del pubblico, ma si accompagna anche a un atteggiamento di delusione e diffidenza da parte dei medici. Come riferisce un articolo di PMLive, nei medici, soprattutto statunitensi, c’è una forma di cautela forte nei confronti dei farmaci di più recente introduzione, tanto che sarebbe un’opinione alquanto diffusa quella che ritiene più sicuro, da parte del practitioner, prescrivere soprattutto farmaci presenti sul mercato da almeno un paio di anni. La ragione principale è che molti hanno giudicato almeno ingenerosa la difesa standard attuata dalle aziende quando sono venuti alla luce problemi di sicurezza a proposito di questo o quel prodotto. Difesa standard che consiste nel far dichiarare ai portavoce delle aziende coinvolte che i dati erano noti, che le pubblicazioni erano disponibili a tutti e che il medico avrebbe dovuto leggere, aggiornarsi eccetera. Di qui, secondo alcuni esperti un’inversione di tendenza: i medici non sono più tanto inclini a prescrivere le novità, almeno secondo Hugo Stephenson, responsabile dei servizi di ricerche strategiche della Quintiles, una delle principali CRO oggi attive.
E proprio le CRO, o meglio il ricorso ai loro servizi anche nella fase post-marketing, è stato visto come una soluzione alla necessità di recuperare in credibilità sui temi della sicurezza. Tuttavia anche questa soluzione, a detta di molti, non sposta radicalmente i termini del problema. Se si tratta di presentare i dati di farmacovigilanza come “indipendenti” dagli interessi del marketing del produttore, il ricorso alla CRO è inutile, in quanto lanche le ricerche condotte in outsourcing vengono percepite come “aziendali”. Questo parere anche di Bernard Hart capo della divisione clinical science di AstraZeneca GB. In effetti, tre sono le possibilità oggi aperte alle aziende: condurre le ricerche internamente, affidarsi alle CRO oppure alla collaborazione con realtà accademiche o con centri di ricerca degli ospedali di insegnamento e altre realtà analoghe. E’ molto probabile che quest’ultima strada sia quella destinata a guadagnare consenso, anche per l’elemento di terzietà che viene a introdurre. Un elemento che si spera venga apprezzato anche dalle autorità regolatorie, oltre che dai prescrittori. Ma non è soltanto il realizzatore dello studio a dover cambiare, ma anche il disegno degli studi stessi, che si trovano a dover oggi soddisfare due necessità spesso divergenti: da una parte fornire strumenti al marketing, il che richede un’attenzione particolare agli aspetti epidemiologici meno differenziati, dall’altra le necessità relative alla sicurezza, vale a dire un disegno più simile a quello degli studi clinici randomizzati. In altre parole, la fase IV più simile alla III. Secondo Stephenson esiste la possibilità di mettere a punto una via di mezzo: studi che coinvolgano almeno 100 centri e almeno 1000 pazienti, che prevedano una semplice randomizzazione all’inizio e poi procedano come uno studio open label.
Certamente gli studi orientati a guidare lo sviluppo del marketing proseguiranno ma, nell’era post-Vioxx, “Qualsiasi cosa possiamo fare nella fase IV per supportare il medico e metterlo più a suo agio con la prescrizione di nuovi prodotti, andrà fatta” sintetizza Stephenson.
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