Il ricorso all’outsourcing nell’attività di ricerca e sviluppo non è un fatto nuovo. Il ruolo delle CRO è ormai definito da tempo e, anzi, si è assistito a una differenziazione sempre più netta, con società che si sono specializzate in particolari fasi del processo di sviluppo, o in particolari aree terapeutiche o, ancora, aree geografiche. Nel 2002 il fatturato delle CRO, a livello mondiale, ha toccato 7,8 miliardi di dollari. I maggiori acquirenti di questo tipo di servizi sono Pfizer – prima in assoluto in questa classifica -  Merck, Novartis, Bristol-Myers Squibb e Eli Lilly. Ovviamente vi è un primato statunitense, con un mercato, nell’anno 2003, di 4,2 miliardi di dollari, contro i 2,6 dell’Unione Europea. Inizialmente il ricorso a risorse esterne per le attività di R&S era motivato pressoché esclusivamente dalla necessità di aumentare le potenzialità dell’azienda, senza allargare a dismisura le strutture interne. Oggi, invece, sembrano predominanti altri aspetti, a cominciare dai crescenti costi di ricerca e dallo scarso output che ne consegue in termini di nuove molecole che completano l’iter registrativo. Contenimento dei costi, dunque, che è anche una preoccupazione del cliente, si tratti dei servizi sanitari pubblici, delle Health Manteinance Organisation o delle compagnie assicurative tradizionali. Di qui, dunque, l’impulso a cercare un modo di rendere economicamente meno onerosa la messa a punto di nuovi farmaci, così da trasferire il vantaggio all’utente finale. Anche il fattore tempo pesa, e poter suddividere su una o più risorse esterne la ricerca e lo sviluppo significa abbreviare significativamente l’arrivo sul mercato, con ovvi benefici in termini di fatturato.

Un altro aspetto di cui tenere conto è la crescente specializzazione dell’attività di ricerca, già specialistica per definizione, cui da un impulso costante l’ingresso delle biotecnologie. In questo senso, spesso nell’alternativa “buy or make” è il primo elemento a rivelarsi più proficuo, soprattutto considerando la possibilità, sempre in agguato, che certi filoni di lavoro si rivelino un vicolo cieco.

Delocalizzare, per molte ragioni
Un altro aspetto importante rientra nella logica della delocalizzazione che interessa tutti i comparti industriali, ma che nel caso della farmaceutica ha una duplice connotazione. Infatti, da una parte, aree con una fortissima scolarità e una tradizione scientifica di rispetto come i paesi ex comunisti offrono capacità di ricerca, strutture e possibilità di reclutamento dei pazienti con costi più che concorrenziali. Dall’altra, svolgere ricerche in alcune aree, come la Cina o l’India, permette di sfruttare la conoscenza della realtà locale, e un reticolo di relazioni nel mondo scientifico e politico, utili anche per l’ingresso nel mercato. A questo proposito l’ostacolo maggiore è costituito dalla regolamentazione della proprietà intellettuale,  che spesso non gode della stessa tutela che le è riservata nel Nord industrializzato. Nel caso dell’India il quadro normativo si è negli ultimi tempi modificato, e ciò ha consentito il trasferimento a CRO locali, da parte delle aziende soprattutto statunitensi, di segmenti dell’attività di ricerca e sviluppo da sempre appannaggio di aziende nazionali. L’attività di ricerca indiana ha storicamente il suo centro nella città di Hyderabad, ma ora si assiste al moltiplicarsi CRO anche altrove; per esempio,  la  Shantha Biotechnics oggi produce enzimi per la Calbiochem (affiliata americana della tedesca Merck), la Ociumum Biosolutions ha venduto alcuni dei suoi software alla Dow Agro Sciences. Anche il rapporto con la Repubblica Popolare Cinese sta comunque cambiando. Se un tempo si affidavano alle strutture locali attività come l’assemblaggio delle microschiere, o l’attività di modifica di vecchie molecole per estenderne la copertura brevettuale, oggi si moltiplicano le partnership di più alto profilo, inaugurate da aziende quali Roche ed Eli Lilly che hanno confermato il potenziale degli scienziati cinesi anche sul piano commerciale. Quindi, se già l’attività produttiva è stata spostata sul territorio cinese attraverso la creazione di aziende locali, a breve la stessa sorte dovrebbe toccare alla R&S. E del resto, se per il 2010 si prevede che l’outsourcing del settore farmaeceutico arriverà a toccare globalmente i 36 miliardi di dollari, la realtà cinese giocherà una parte fondamentale.

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