Il tema sta diventando un autentico cruccio per l’industria del farmaco statunitense. Si tratta dell’efficacia delle visite al medico degli informatori. Le diverse osservazioni in merito hanno uno sfondo comune: dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, la competizione tra blockbuster si è intensificata e la prima e più immediata risposta del marketing è stata l’espansione delle reti di vendita, nel presupposto che a un maggior numero di visite potesse corrispondere un aumento delle prescrizioni. In effetti è stato così nella fase iniziale, ma già nei primi anni novanta è cominciata una brusca perdita di valore della visita, proprio agli occhi del medico. La situazione è stata riassunta da un’indagine proprietaria della Accell, un’agenzia Omnicom, pubblicata nel 2003 e da allora indicata come “Accel report” . Alcuni dati potranno rendere il quadro delineato dal rapporto. Per cominciare, solo il 43% delle visite supera lo sbarramento del personale addetto alla ricezione (segretaria o infermiera), un aspetto, la presenza di queste figure, destinato a riguardare sempre più spesso anche il generalista italiano. Soltanto il 7% delle interviste dura più di 2 minuti. Solo il 6% dei medici giudica equilibrate le interviste stesse e soltanto l’8% le ricorda. L’indicazione delle doti più apprezzate in un informatore, poi, è eloquente: sensibilità alla poca disponibilità di tempo (84%), Credibilità (84%), atteggiamento amichevole (78%), preparazione scientifica (61%). Infine, ma si potrebbe continuare, il 56% dei medici ritiene che il linguaggio delle presentazioni sia diventato più aggressivo.

Le due responsabilità del marketing
Quest’ultimo aspetto, l’eccessiva aggressività, è caro anche ad altri esperti, come Gerald Acuff, CEO della Delta Point, una sales agency specializzata nel supporto della rete degli informatori. Secondo Acuff, però, vi sono responsabilità innegabili del marketing, che si focalizzano in due punti. Il primo è la scarsa attenzione a discriminare tra un messaggio di marketing e un messaggio rivolto al medico. Spesso la strategia di vendita non è accompagnata anche da indicazioni su come tradurla in un discorso che risulti utile – e accettabile – al destinatario, in particolare, ed è il secondo punto, si tende a usare un linguaggio che più o meno volontariamente tende a  mettere alle strette l’interlocutore. L’esempio classico sono i detailing che cominciano con farsi del tipo “Dottore, voglio parlarle dei suoi pazienti affetti da...” oppure  “Dottore, perché prescrive...”.

Meno superlativi e claims ad effetto
A questo aspetto si associa anche l’uso eccessivo di superlativi e di claim ad effetto. Tutto questo mentre osservando sia il linguaggio impiegato negli studi sia quello usato correntemente nelle conversazioni tra colleghi, i medici tendono semmai ad abbondare nelle formule prudenziali quali “pare che” , “sembra “, “si potrebbe” . Non stupisce, commenta Acuff, che il 94% dei medici ritiene  il discorso standard dell’informatore eccessivamente viziato. In altre parole, l’informatore tende a pensare come un venditore e non come un medico. Va anche detto che questo vale per gli Stati Uniti in una misura maggiore che in Europa, dove il controllo sui claim è più stringente. A questo punto,al di là delle considerazioni sul riorientamento della comunicazione, vale anche il principio della maggiore vicinanza tra direzioni marketing e operatori sul campo, sia per verificare l’effettiva traduzione in pratica delle strategie sia per recepire quanto raccolto dagli informatori in termini di reazione del medico. Altrimenti c’è il rischio che l’informatore, cogliendo l’insuccesso della sua comunicazione, rifletta il giudizio sulle scelte di marketing nel loro complesso. E su chi le ha elaborate.

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