Farmaci biologici: sembrava il futuro e invece è già tempo di generici. Facile battuta, ma problema complesso, anche per aspetti che in prima battuta potrebbero sembrare secondari e per qualcuno, come si vedrà, tali sono effettivamente. Il fatto saliente, comunque, è accaduto una decina di giorni orsono, quando la Biotechnology Industry Organization, che rappresenta 1.100 aziende del settore biotecnologico, ha chiesto all’Organizzazione Mondiale della Sanità di rivedere l’INN, cioè il sistema di denominazione internazionale (International Nonproprietary Names) cui ci si appoggia per dare un nome alle molecole o principi attivi che dir si voglia.
Il movente della richiesta è l’imminente arrivo sul mercato di versioni non branded di alcuni farmaci biologici, versioni che dovrebbero quindi essere accomunate sotto il cappello dell’INN. Senonché, sostiene la BIO, i farmaci biosimili non sarebbero equivalenti ma, appunto, simili. Diversamente dai farmaci basati su sostanze chimiche, si tratta di prodotti unici, in quanto frutto di processi di sviluppo e produzione molto complessi, per i quali è azzardato dunque presupporre un’uniformità di risposta clinica. Quindi, conclude la BIO, la pratica della sostituibilità da parte del farmacista, che trova nella denominazione unica di tutti gli equivalenti una sorta di suggello, è in questo caso poco consigliabile. Inoltre, posto che si seguisse comunque questa strada, sarebbe fondamentale una denominazione differente per ciascun biosimile, così da consentire un’immediata tracciabilità del farmaco in caso di reazioni avverse. L’altra parte in causa, vale a dire i produttori di generici, ovviamente sono di diverso avviso e, dalle due parti dell’Atlantico, lo hanno fatto sapere in fretta. “Non c’è una giustificazione scientifica per attribuire a ciascun biosimile una denominazione INN differente [dal capostipite]” ha reso noto la European Generics medicines Association (EGA), “è una mossa politica per garantirsi un mercato protetto” ha fatto eco la GphA, equivalente statunitense dell’EGA.
La BIO, però non è l’unica associazione di settore che si è mossa in questa direzione: è affiancata infatti da European Biopharmaceutical Enterprises, European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations, EuropaBio, International Federation of Pharmaceutical Manufacturers e, infine ma non ultima, la Pharmaceutical Research and Manufacturers of America. In particolare EuropaBIO ha comunicato che “Con l’arrivo dei medicinali biosimili è necessario assicurare l’armonizzazione a livello mondiale della tracciabilità, della farmacovigilanza e della sostituibilità”. Inoltre, si è detta pronta a “supportare iniziative mirate a informare medici e operatori sanitari in modo specifico, sulla base di linee guida dell’EMEA, a proposito dei biosimili, così da permettere decisioni consapevoli a proposito del loro impiego”. L’EMEA, per ora, non si è pronunciata sulla modifica dell’INN, anche se ha avuto già modo di dichiarare che, vista la particolarità dei farmaci biologici, l’approccio tradizionale al generico non si applica in modo appropriato a queste sostanze; d’altra parte, ha aggiunto, l’EMEA dovrà prendere una posizione anche in base a quanto deciderà l’OMS.
La statunitense Food and Drug Administration è stata meno diplomatica e, con spirito pragmatico, già lo scorso settembre ha definito superflua tutta la questione. La bioequivalenza tra specialità e generico, ha comunicato ufficialmente, non si stabilisce attraverso i nomenclatori, ma sulla base di studi controllati, quindi non c’è nessuna necessità di modificare l’INN per prevenire sostituzioni inappropriate. O il farmaco è equivalente, e prende la stessa denominazione, o non lo è e allora non può fregiarsene. “Nomina sunt consequentia rerum”, i nomi sono conseguenza delle cose, scrisse Giustiniano e fa piacere che almeno l’FDA se ne ricordi.
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