La campagna per il nuovo bifosfonato di Roche rilancia il tema degli aspetti collaterali rispetto all’efficacia. Collaterali ma centrali per ottenere l’adesione alla terapia da parte del paziente, che nella malattie croniche è fondamentale
Recentemente molti hanno notato un ADV che non stressava evidenze di efficacia legate a una molecola, ma piuttosto l’importanza, per il trattamento dell’osteoporosi, della compliance, o adesione alla terapia che dir si voglia. Ovviamente il legame con il prodotto c’è, si tratta dell’ibandronato (Roche), un bifosfonato oggi disponibile in Italia e attualmente in lancio, dopo la presentazione alla stampa avvenuta a Roma il 14 giugno. La principale particolarità del farmaco è la monosomministrazione mensile. La campagna è senz’altro interessante, perché al di là delle finalità di marketing, è impostata, per una volta, su un problema clinico che prescinde dal dato di efficacia puro e semplice. In effetti, è il messaggio sotteso, trattamenti efficaci per curare l’osteoporosi ve ne sono; il punto è che per le loro caratteristiche, questi trattamenti possono risentire in modo anche pesante di fattori soggettivi. Per esempio la poliprescrizione, molto frequente negli anziani che costituiscono l’utenza di questa categoria di molecole.
Di fronte a trattamenti per diverse condizioni, per esempio ipertensione e ipercolesterolemia, l’assunzione di svariate compresse ogni giorno, anche l’aggiunta del bifosfonato settimanale può mettere a dura prova pazienza e memoria della persona. Sollevato il problema della necessità di migliorare l’adesione, e delle difficoltà che si frappongono a questo obiettivo, l’arrivo di una molecola per la quale è sufficiente una singola somministrazione ogni trenta giorni può facilmente essere presentata, almeno in parte, come una soluzione. Una compressa una volta al mese, come è stato suggerito, l’anziano se la può ricordare anche semplicemente conservando un appunto all’interno del libretto della pensione.
Il lancio di questo farmaco è stato accompagnato da un’indagine demoscopica, condotta dalla Manners Ardi di Renato Mannheimer, su un campione rappresentativo di donne in post-menopausa. I risultati offrono qualche spunto di riflessione anche ai fini delle linee che devono guidare l’informazione rivolta a medico e pubblico. Intanto, la stragrande maggioranza delle donne sembra essere adeguatamente informata sull’esistenza della malattia: il 90% sa darne una definizione corretta. Il risultato cambia quando invece le domande riguardano la terapia. Soltanto il 22% sa dell’esistenza di trattamenti efficaci e, all’altro estremo della gamma, c’è un 9% che ritiene non si possa fare nulla al riguardo. In mezzo, il 32% non sa dell’esistenza di trattamenti e il 37% ritiene inutili le cure attualmente proposte. Può darsi che questo sia un effetto di rimbalzo degli anni in cui si è largheggiato, in promozione e prescrizioni, con farmaci di alto costo la cui efficacia è stata poi messa in discussione e che, praticamente, sono stati abbandonati. E’ questo, per esempio, il parere dell’endocrinologa dell’Università di Firenze, e presidente della Società italiana dell’osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro.
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