Ma insomma, una bella comunicazione a un congresso vale più di uno studio pubblicato con tutti i sacri crismi? Dipende: se il discorso si pone sul piano della risonanza pubblica, ebbene sì, è possibile. Infatti i grandi congressi, non necessariamente i “mondiali”, hanno una discreta cassa di risonanza, i giornalisti scientifici sono presenti e, insomma, se la notizia c’è, esce. Di segno contrario la risposta se, invece, si passa alla qualità scientifica. Molti sostengono infatti che gli abstract delle presentazioni ai congressi non dovrebbero rientrare nel pool dei dati presi in esame da review e metanalisi. Troppo pochi i controlli, magari troppo rapida l’elaborazione dei dati, magari eccessiva la spinta a presentare i risultati favorevoli all’intervento. Difficile dire se sia davvero sempre così, anche perché la situazione si è ulteriormente complicata con l’introduzione, soprattutto in ambito statunitense, delle late breaking trials session, cioè le sessioni di congressi dedicate alle novità di un certo rilievo.
Teoricamente, rispetto alle presentazioni nelle altre sezioni, le anticipazioni fornite qui potrebbero avere qualche titolo in più. Per esempio, per essere presentate in queste sessioni clou, le comunicazioni devono essere sottoposte agli organizzatori con un certo anticipo, almeno tre mesi prima dell’evento. Questo comporta una selezione meno favorevole all’intervento, e quindi allo sponsor della ricerca, in quanto la segnalazione avviene quando la ricerca è ancora in fase iniziale, ed è difficile stabilire quale sarà l’esito effettivo. Uno studio pubblicato da JAMA ha deciso di andare fino in fondo alla questione e, così, ha preso in esame tutte le presentazioni di trial condotte in senso alla sessione clou del congresso annuale dell’American College of Cardiology, dal 1999 al 2002, valutando il loro destino. In altre parole, controllando quanti di questi trial presentati sul tamburo erano poi stati pubblicati, in quali riviste, con quali differenze nei datiu tra la prioma analisi e quella definitiva con tanto di revisione del board della rivista pubblicante. Il confronto è stato fatto con 100 studi presentati in altre sezioni del congresso meno prestigiose.
Primo risultato: è vero, i trial presentati qui sono in genere meno favorevoli all’intervento valutato (58% vs 75%), hanno una maggiore numerosità dei campioni e, infine, sono pubblicati più spesso di quelli presentati in altre sezioni (92% vs 69%) ed è molto più probabile che per essi sia già stato pubblicato il disegno stesso dello studio. La coerenza dei dati presentati con la successiva pubblicazione, però, resta carente in fatto di efficacia del trattamento indagato: in pratica non c’è a questo riguardo una differenza apprezzabile rispetto al campione preso come controllo. Il 41% delle presentazioni viene dunque corretto in sede di pubblicazione e, aspetto più grave, nel 14% dei casi, solo una delle due “versioni” era statisticamente significativa. Gli autori dello studio vedono anche i limiti del loro lavoro, a cominciare dal fatto che si sono occupati soltanto di cardiologia. Tuttavia i risultati non distano molto da quelli ottenuti in ricerche analoghe su altre specialità e, poi, si deve considerare che la cardiologia è un settore dove si investe tantissimo. Quindi? Quindi sembra che l’accademia sia orientata a non dare un peso eccessivo alle presentazioni congressuali di qualsiasi genere quando si tratta di trial randomizzati non oggetto di pubblicazione. E citano, tra l’altro, il caso di due studi, il NASCET e l’ACAS. Dedicati all’endoarterectomia carotidea, i due trial diedero il via, dopo la presentazione in sede congressuale, a un aumento del ricorso all’intervento anche in pazienti che, ex post, non avrebbero nemmeno soddisfatto i criteri di inclusione nella ricerca. Meno male che, per una volta, l’esempio negativo non riguardava un farmaco...
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