Che un’immagine valga più di tante parole è un luogo comune, quindi passibile di molte conferme ma anche di molte smentite. E’ il caso, naspettatamente, della pubblicità, almeno secondo Phil Cox, direttore creativo di Lane, Earl and Cox Advertising, una delle maggiori agenzie pubblicitarie di Londra, con una forte vocazione al settore farmaceutico.
Secondo Cox in tempi recenti l’advertorial è andato appiattendosi sull’immagine, dimenticando quanto conti, ai fini dell’impatto e del ricordo, il testo. E testo per eccellenza, in un ADV è l’headline. Cox cita a sostegno della sua tesi nientemeno che la famosa ricerca di Masters e Johnson sulla sessualità, dalla quale emergeva che risultava molto più eccitante un testo erotico piuttosto che un’immagine esplicita.
Un aspetto di cui si dovrebbe tenere conto anche quando si tratta di dell’uso di Internet dove, con l’arrivo delle tecniche di animazione, tutto si è spostato sulla ricerca di effetti speciali, a discapito del messaggio verbalizzato.
Al di là dello sbilanciamento tra parola e immagine c’è poi una notevole ingenuità della media dei dei messaggi pubblicitari del farmaco. Si faccia astrazione, temporaneamente, dalle regole e dal vaglio delle autorità regolatorie, ma effettivamente i testi delle headline tendono a essere del tipo “è buono e fa bene” (come si dice nelle agenzie italiane); scienza empirica, la medicina ha improntato a sé la pubblicità del medicinale. Però, centrarsi sui fatti non significa necessariamente dire al destinatario del messaggio cioò che vuole sapere o quello che deve sapere. Il rischio è insomma che il messaggio sul farmaco parli il linguaggio di chi lo produce e non di chi lo deve scegliere. Secondo Cox è uno schema che trova la sua espressione più rozza nella pubblicità autoprodotta delle piccole aziende famigliari, in cui tutto quel che si vede e si legge riguarda il negozio o la fabbrica, che sono senz’altro importanti per l’imprenditore, ma poco o nulla per il destinatario.
Se questo è il quadro generale, ci sono alcune semplici regole che possono aumentare l’efficacia dell’headline senza necessariamente infrangere le regole etiche. Per esempio, se quello che si vuole trasmettere è la sicurezza del proprio farmaco, è buona norma non usare quella parola, è come dire a una persona “sta calmo”, l’effetto di solito è l’opposto. Il concetto deve emergere come una deduzione del lettore. Se possibile, è bene congiungere termini che normalmente sono ritenuti distanti. Cox cita a esempio la campagna di un prodotto utile nel dimagrimento, che aveva come headline “the inch war” (la guerra del pollice) che ha praticamente costruito il brand. Inoltre, visual ed headline è molto meglio non si rispecchino, vale a dire che se si promuove un ansiolitico con una tranquilla marina, è inutile che l’headline parli di serenità, calma e tranquillità, meglio puntare sullo stress.
Certo non sono suggerimenti facili, viste le limitazioni ai claim di prodotto. Ma Cox sottolinea che se un copy è all’altezza deve poter superare anche questo ostacolo. E ammonisce a tenere sempre presente che una recente indagine britannica ha riscontrato che mediamente, in un’ora e mezza, una persona è esposta 250 messaggi pubblicitari di 100 marchi differenti su 70 media differenti. Se non si esce dallo sfondo...
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