C’è una novità, almeno terminologica, nel mondo della promozione del farmaco. Si chiama tribal marketing e, a dispetto del nome, che rimanda ad atmosfere cyberpunk, ha una base assai realistica. Infatti, l’assunto è che il consumatore post-moderno chiede ai prodotti di renderlo non solo più libero dal bisogno, ma anche di metterlo in relazione con gli altri, cioè, appunto, con la tribù. Di qui l’interesse di una strategia di marketing che miri a creare una comunità di utenti. E’ evidente che questo approccio è nato nel mass-market, non certo nel mondo della salute ed è, con qualche semplificazione, il rovescio della medaglia della segmentazione del mercato, o meglio la sua esplicitazione: stabilito che un certo prodotto attirerà prevalentemente una popolazione con alcune caratteristiche demografiche e psicografiche, si chiama allo scoperto il segmento, gli si attribuisce un nome e un’identità collettiva. Anche in questo caso, però, un conto è creare una community di utenti di uno scooter (non è un esempio a caso: basti pensare a che cosa hanno significato i Vespa Club per la Piaggio), un altro creare una comunità di pazienti che assumono un certo farmaco. Eppure non è così strano come può apparire d’acchito: da sempre le associazioni di pazienti sono comunità che hanno in comune un problema medico e, verosimilmente, il “consumo” di alcuni farmaci.

Un libro molto esplicito
E’ evidente che oggi parlare di comunità significa necessariamente parlare di Internet, e in effetti l’arrivo di questo canale di comunicazione, molto più orizzontale di quanto si creda, ha impresso una notevole accelerazione anche all’aggregazione dei pazienti, su una base assai differente dal passato, con un flusso di informazioni sempre maggiore, ma anche un contatto più diretto tra paziente e azienda. Nello scenario europeo, poi, è risaputo che molto spesso le associazioni di pazienti sono state uno degli interlocutori delle aziende. A complicare le cose, negli Stati Uniti, viene poi la pubblicità diretta al consumatore (DTC), che in molti casi ha esasperato il concetto, dando luogo alla nascita di quelle che Greg Critser ha battezzato “tribù farmaceutiche”. Critser, per inciso, è un giornalista scientifico, molto addentro al mondo dell’industria farmaceutica e alimentare, che già nel 2003 pubblicò un libro dedicato all’epidemia di obesità negli Stati Uniti, (Fat Land : How Americans Became the Fattest People in the World) e nel 2005 ha dato alle stampe Generation Rx : How Prescription Drugs Are Altering American Lives, Minds, and Bodies. Ed è appunto da questo testo che proviene la definizione riportata prima. Secondo Critser la promozione diretta al cittadino-consumatore-paziente ha modificato profondamente lo stile di vita almeno di gruppi consistenti. In particolare, cita tre di queste tribù farmaceutiche.

Contaminazioni pericolose
La prima è quella della High-Performance Youth, gioventù ad alte prestazioni, costituita da bambini e adolescenti trattati farmacologicamente per depressione, ADHD e altre turbe psicologiche, sulla spinta “del comprensibile desiderio dei loro genitori che possano competere adeguatamente in una società sempre più esigente nei confronti dell’individuo”. La seconda è la Tribe of Productivity and Comfort, tribù del comfort e della produttività, costituita dalle persone di mezza età pronte a rivolgersi a statine, antidepressivi, inibitori della pompa protonica e farmaci per il deficit erettile “per mantenere alta la capacità produttiva (in tutti i sensi, ndr) e minimizzare ogni inevitabile sconfitta “compresa quella di dover stare attenti a ciò che si mangia e si beve e di cercare di non restare sempre in poltrona”. La terza, infine, è quella dell’ High-Performance Aging – la traduzione è superflua – dove si arruolano gli anziani che assumono farmaci “non soltanto per alleviare gli inconvenienti dell’età ma anche per allungarsi la vita”, una vita, è implicito, ad alte prestazioni. Secondo alcuni commentatori statunitensi, è inevitabile che vi sia una contaminazione tra le strategie di comunicazione del mass-market e quelle del settore farmaceutico, non fosse altro che per il fatto che a livello mondiale le “firme” della pubblicità sono le stesse, ma certamente questo viene percepito più come un pericolo che come una possibilità.

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